Stand by me - Ricordo di un'estate

Eravamo goffi quell’estate di quindici anni fa.

Dopo aver fatto l’esame di maturità pensavamo di poter spaccare il mondo facendo una vacanza assieme, ma alla fine abbiamo spaccato ben altro. Le balle a noi stessi innanzitutto, ma non solo.

Ad esempio, anche un po’ di quell’amicizia che volevamo suggellare con quella vacanza, almeno con alcuni di quelli che vennero. Perché dopo la maturità alcune amicizie rimangono, ma altre, anche quelle che sembrano le più grandi, le più lucenti, un po’ si perdono. Niente di particolare o di grave: è solo la vita, che ha bivi e curve improvvise, e te le porta via.

 

Tre ragazzi e tre ragazze, la prima vera vacanza senza genitori.

Eravamo goffi con le nostre patenti appena conquistate e ancora lucide: a quei tempi la patente era un brillante trofeo, che ti metteva ad un volante facendoti sentire un essere umano superiore, un incrocio tra Ayrton Senna ai tempi d’oro e un dio azteco; quindici anni dopo, la patente diventa invece uno sgualcito documento che ti permette semplicemente di correre in macchina dietro ai tuoi affanni e di guardare con un sorriso malinconico la foto di un ragazzino che non sei più veramente tu (ed invece quindici anni dopo quella foto solitamente ricorda le immagini segnaletiche degli spacciatori di cocaina catturati in una retata: ma come diavolo ci conciavamo da giovani?).

Eravamo goffi alla guida di quelle vecchie automobili che i genitori concedono ai figli neopatentati: di solito sono le automobili che usano le madri, con frizioni spossate da tanto pedestre accanirsi, e leve del cambio che scivolano da una marcia all’altro come se fossero immerse nel burro fuso.

 

Noi siamo quindi partiti così: una vecchia Golf blu, e una Opel Kadett grigia ancor più vecchia, si potrebbe quasi dire antica. I piloti, ovviamente, maschi: è risaputo che l’automobile è un prolungamento del pene, e poi le donne non sanno guidare, ecc. ecc. Insomma, prendete tutti questi luoghi comuni e moltiplicateli per mille: avevamo diciannove anni, cribbio! Il mondo era o bianco o nero. E in questo mondo gli uomini guidano e le donne si fanno affascinare dagli uomini che guidano (oltre al fatto che gli uomini prendono la patente alla mezzanotte e un minuto del giorno del diciottesimo compleanno, mentre le donne se la prendono con più calma, un po’ perché hanno chi le scarrozza; un po’ perché tanto i loro genitori seguono i sopra citati luoghi comuni sulle capacità di guida delle donne e non le fanno mai prendere la macchina mentre i figli maschi li lasciano partecipare al Gran Premio di Indianapolis dopo tre giorni di patente; ed infine un po’ perché alle donne comunque piace fare le adolescenti in motorino fino ai 35 anni).

 

Io ero sulla Golf, e i miei occhi cercavano sempre la ragazza seduta con me in quella macchina, Elisabetta. E lei lo sapeva.

Nell’ultima gita scolastica, a Vienna, avevamo passato una sera in camera a parlare e ad un certo punto, così, dal niente, ci siamo dati il bacio più lungo del mondo, una roba tipo dalle 23.31 alle 6.04. Non ci siamo più staccati più o meno fino al sorgere del sole.

Senza dirci niente di particolare è venuto fuori quel bacio chilometrico, sensuale, lussurioso, dolcissimo, e poi basta. Un saluto sussurrato, e da allora più niente, più nessun bacio. Solo sguardi, sorrisi e parole. 

Ma Elisabetta ed io eravamo così: avevamo un’intesa enorme, ma era ancora acerba, ingenua. Era come se entrambi fossimo ad un passo dal trovare un inestimabile tesoro, ma non avessimo ancora avuto la forza, la fortuna o il coraggio di fare quella scoperta, di afferrare quel tesoro e metterlo al sicuro.

 

Eravamo goffi nel nostro entusiasmo iniziale.

Al ritrovo, in autostrada e in traghetto, i nostri sorrisi erano calchi sul viso, impossibili da togliere. Anche la più stupida delle battute o il più demente degli scherzi, rinfrancava il gruppo. Non c’era stanchezza, né noia: in effetti avevamo la vita davanti, oltre che una vacanza.

Se poi aggiungiamo il tramonto che ci ha accolto a Portoferraio al nostro arrivo all’Isola d’Elba, una palla rossa che si nascondeva timida in un abito blu, ecco che spariva pure l’odore dello scarico della Moby Lines, e spariva anche il fatto di aver viaggiato in traghetto, che è una delle cose più noiose e snervanti sulla faccia della terra, inchiodati e costretti al niente, dove puzza, casino e inedia rendono il viaggio bello più o meno come partecipare ad un convegno nel deserto, mentre vicino stanno rumorosamente estraendo petrolio.

Anche l’arrivo nei nostri appartamenti di Procchio non fece altro che aumentare l’entusiasmo. O la prima notte in veranda a bere birra e guardare le stelle. O il primo giorno in spiaggia alla baia della Biodola. Tutto ciò che avveniva per la prima volta era stupendo.

Ma eravamo goffi, e pensavamo che potesse restare egualmente stupendo anche la seconda volta. D’altronde era la prima vacanza: solo dalla seconda in poi, e proprio a causa di quella prima, avremmo capito tante cose sulle vacanze insieme. La più fondamentale: il gruppo deve essere strettamente omogeneo. E un gruppo di compagni classe non lo è, perché tra compagni di classe il primario elemento in comune è la scuola dell’obbligo, che, per l’appunto, li ha obbligati a stare assieme. Certo, poi può nascere anche l’amicizia, ma tutto parte dall’obbligo imposto dall’esterno, e quindi da un puro caso.

Se gruppi casuali e disparati si riuniscono, formando una sorta di Compagnia dell’Anello come si vede nella saga di Tolkien (un elfo, un nano, un hobbit, un guerriero, un mago e altri fessi del genere), e decidono di andare in vacanza, poi non potranno che litigare.  E litigare ferocemente.

Almeno noi abbiamo fatto un simile sbaglio solo quella volta, e solo perché eravamo goffi e giustificati dal preciso e particolare momento della nostra vita, ma quando vedo che ancora adesso alcuni miei coetanei per andare in vacanza creano gruppi raccogliticci, di solito di coppie di fidanzati riunitesi per unire le proprie solitudini, per poi tornare delusi, incazzati e più astiosi di prima, mi viene da pensare che se anche dopo aver superato i trent’anni sono ancora così ingenui ed inesperti, evidentemente a loro la vita è passata di fianco.

 

Dopo l’entusiasmo iniziale, si litiga per qualsiasi cosa.

Quell’anno all’Isola d’Elba, dopo l’entusiasmo iniziale, noi litigammo, in ordine sparso, per le seguenti cose.

Per la spesa, perché c’era chi voleva spendere poco e mangiare gallette e frutta per tutta la vacanza, e chi invece ogni sera voleva mangiare come se ci trovassimo al debutto in società dell’imperatrice Sissy.

Per i soldi in generale, perché c’era chi per venire via aveva dovuto rompere il salvadanaio a forma di suino regalatogli dai nonni alla prima comunione, e chi invece, alla stregua di un benzinaio alla fine della giornata, aveva il portafoglio gonfiato di banconote da genitori opulenti e lassisti.

Per la pulizia degli appartamenti, perché dopo la prima sera e la prima cena dove tutti si erano dimostrati festosamente servizievoli come nella prima puntata di un reality-show, ecco che nei giorni successivi nessuno voleva pulire o sparecchiare e ci si attivava di malavoglia e per puro spirito di sopravvivenza solo quando la casa era diventata una baraccopoli di formiche.

Per la sveglia, perché le ragazze volevano prendere il sole dodici ore consecutive fino a sfilarsi la pelle di dosso e quindi alle otto erano già in piedi, mentre a noi ragazzi andava bene alzarsi all’una, fare una pigra colazione, effettuare un’approfondita rassegna stampa tra la Gazzetta dello Sport ed Eva 3000, andare in spiaggia alle tre, e rientrare con calma, alle cinque.

Per la scelta delle spiagge, perché le ragazze andavano avanti al motto pioniero di “una spiaggia diversa al giorno”, mentre noi ragazzi, ed in particolari quelli che guidavano, dopo due giorni eravamo già belli che stufi di percorrere in lungo e in largo le incerte e sconnesse strade dell’Elba, e proponevamo ogni giorno la stessa spiaggia fronte appartamento o, ancor meglio, la piscina (e pronunciare davanti alle ragazze la parola “piscina” era come bestemmiare con un megafono di fronte al Papa).

Per le serate, perché c’era chi faceva coincidere la fine della scuola con la più totalizzante autodistruzione, da praticarsi scientificamente ogni sera, eventualmente anche controvoglia, e chi invece preferiva serate tranquillissime a letto, a non chiacchierare affatto, e semmai a russare come gnu.

Insomma, dopo i primi giorni la tensione aumentò a dismisura. Eravamo sempre contratti e accigliati. Ci divertivamo più per rinfacciarlo a quelli che in quel momento non si stavano divertendo, e non perché ci stessimo divertendo veramente.

Ognuno si arroccò sulle proprie posizioni: le ragazze si alzavano alle sette di mattina sbattendo sulle pentole per svegliarci e segnando sulla cartina itinerari che non avrebbero il coraggio di stilare nemmeno i navigatori della Parigi-Dakar; noi ragazzi, per contro, avevamo rotto tutte le sveglie di casa, ci eravamo abbonati alla Gazzetta, e lasciavamo perennemente gli asciugamani sulle sdraio della piscina a segnare il territorio (uno di noi propose anche di pisciare attorno alle sdraio medesime per marcare ulteriormente l’area, ma il progetto venne scartato solo perché la sera prima avevamo mangiato asparagi).

 

Raggiungemmo l’apice dell’astio reciproco a due giorni dal ritorno, e quello forse servì a farci trascorrere la fine della vacanza in modo più sereno, perché peggio di così non sarebbe potuta andare.

Quella mattina, mattina molto presto perché avevamo ceduto alla smania esploratrice delle ragazze, stavamo andando praticamente dalla parte opposta dell’isola. O forse del mondo, chissà, vista la lunghezza del tragitto. Ad ogni chilometro che passava, aspettavamo da un momento all’altro di trovarci di fronte ad un cartello con su scritto “RALLENTARE - COLONNE D’ERCOLE”.

Nelle macchine ci eravamo rigorosamente divisi per sesso, perché ormai si era creata una sorta di muraglia cinese all’interno del gruppo: da una parte cromosomi X e Y legati insieme, portatori di peli, rutti e continua esclamazione di oscenità; dall’altra parte solo cromosomi X, portatori di grazia e pelle liscia, ma anche di voglia di sole estremo e di abbronzatura perfetta, e in generale di vacanze assolutamente sfibranti, che non sono più vacanze ma diventano distruttive maratone, fatte di ustioni alla pelle e stanchezza, stanchezza e ancora stanchezza. Il tutto per cosa? Niente, ovviamente. Perché quando torni dal mare quelli che ti vedono, al massimo dicono “però, che abbronzato che sei” e fine. Sette giorni di melanoma per una frasetta di convenienza buttata lì. Perché poi questi che ti dicono la frasetta tornano a pensare ai fatti loro e tu potresti anche essere scuro come un abitante del Congo francese che a loro interessano comunque di più le bollette che hanno da pagare.

E poi, diciamola tutta: ad acuire il distacco tra noi e le ragazze c’era anche il fatto che mentre le ragazze pensavano appunto esclusivamente al sole e al mare, beh noi, carichi di ormoni dall’uretra alle pupille, avremmo voluto fare anche qualcosina d’altro con loro. Ovviamente, almeno fino a quel giorno, negatoci: c’era d’alzarsi presto il giorno dopo, è chiaro.

Comunque sia in macchina, dopo due ore buone di strade dissestate, noi stavamo brontolando, se non proprio scomodando tutti i santi del paradiso a suon di imprecazioni, quando ecco che le euforiche ragazze, dietro, ebbero l’idea fuori luogo di farci uno scherzone che ci eravamo già fatti durante il viaggio di andata, quando però eravamo freschi ed entusiasti: lo scherzo consisteva nel tamponarsi piano piano, giusto un tocco (uno scherzo cretino ne convengo, ma ve l’ho detto che appena partiti si rideva per tutto).

 

Ovviamente alle ragazze non riuscì bene lo scherzo, perché nel viaggio di andata al volante della macchina tamponatrice c’era un ragazzo, mentre in quel momento c’era la nostra unica compagna con la patente, la quale, unendo i luoghi comuni delle donne al volante, agli infradito che indossava in quel momento (che è come guidare avendo due costate di manzo sotto la pianta del piede), sbagliò tutto il gioco frizione-acceleratore-freno e in sostanza ci tamponò violentemente, in modo fatto e finito, altro che scherzo.

Subìto l’inaspettato urto, il guidatore della Kadett tamponata ci guardò per un attimo incredulo, dopo di che accostò velocemente senza dire una parola e scese dall’auto come pronto a fare a botte.

E in effetti lo fece.

Alla visione delle ragazze che ridevano in un misto di strafottenza ed imbarazzo, il nostro compagno sentì il sangue nelle vene tramutarsi in vin brulè, in una sorta di miracolo di San Gennaro per alpini, e per qualche secondo si trasfigurò pure nel toro assassino che vince la corrida. Aprì la portiera del guidatore, tirò fuori con violenza la guidatrice strattonandola per un braccio, e, strozzando fra i denti un “ma che cazz…”, le tirò uno schiaffone fortissimo in piena guancia.

Mi ricordo ancora il rumore di quello schiaffo: sembrava che due ciclopi si fossero dati un cinque alto dopo un grande canestro.

Vi risparmio pianti, accuse, offese, rinfacciamenti di ogni genere che ci rovesciammo addosso come la lava sopita di un vulcano. In effetti quell’eruzione, quello sfogo, servì a farci passare meglio gli ultimi due giorni: ci eravamo detti tutto e avevamo ormai tacitamente concordato che non saremmo mai più andati in vacanza assieme.

Eravamo più sereni.

 

L’ultima sera della vacanza decisi quindi di parlare un po’ con Elisabetta.

Bisognerebbe prima aprire una parentesi sulle ultime sere delle vacanze al mare.

Le ultime sere sono una cosa bellissima, ma anche un po’ irrazionale e stupida, hanno addirittura un che di tragico. La domanda infatti è: perché con tutta la vacanza a disposizione, solitamente si aspetta l’ultima sera per fare quello che si voleva fare, tipo provarci con una ragazza o comunque dirle cose importanti?Così comportandosi, si crea sicuramente un attimo irripetibile, ma che essendo capitato alla fine della vacanza resta irripetibile, e può lasciarti dentro una specie di cicatrice. Tornare subito dopo all’asfalto della città, dopo aver vissuto un attimo così, è una cosa che può far impazzire, che ti mangia qualcosa dentro, ti ruba un po’ di anima ogni volta che ci pensi. Forse è meno poetico e struggente, ma sarebbe meglio sparare tutte le cartucce all’inizio della vacanza (se ci sono cartucce da sparare, ovvio).

A diciannove anni comunque si è poetici e struggenti, o semplicemente ingenui, il cinismo arriva verso i trenta, quindi io sparai le cartucce l’ultima sera.

 

Ero rimasto da solo con Elisabetta nella veranda del nostro appartamento, perché tutti gli altri erano andati in discoteca. Va detto infatti che in vacanza la locuzione “ultima sera” solitamente viene anche accoppiata, costi quel che costi, alla locuzione “divertirsi per forza”, e il luogo sommo del divertirsi per forza è la discoteca, o per lo meno lo è sicuramente per gli adolescenti (attualmente in effetti credo che la discoteca esista solo per gli adolescenti. Poi ovviamente gli adolescenti possono avere anche 40 anni, ma questo è un altro discorso).

Comunque sia, Elisabetta ed io, in un impeto di autodeterminazione inusuale per quell’età, decidemmo di non andare con gli altri: dopo il Grande Schiaffo il clima si era rasserenato, tutti i soprusi e le liti erano state racchiuse in quella pizza in faccia e spazzate via nell’attimo stesso in cui la lesione guanciale si era consumata, cosicché adesso ognuno poteva fare le sue scelte senza essere criticato o insultato dagli altri.

Con gli occhi rivolti a mezza via tra il paesaggio brullo che stava davanti al nostro appartamento (il mare era poco più in là), e il cielo scuro che quella sera era attraversato da qualche nuvola che copriva la luna in un’intermittenza per licantropi, io ed Elisabetta restammo in silenzio per un po’. In effetti ci sono dei momenti in cui sono certi paesaggi a parlare, e non c’è bisogno di interromperli.

Poi Elisabetta mi prese la mano e mi guardò negli occhi.

Aveva due occhi enormi, oggi non mi ricordo neanche più il colore, ma la grandezza sì. Erano incredibilmente grandi, e, non so come spiegarlo, profondi. Ci potevi vedere dentro, vedere cosa pensava. E in quel momento vedevo che era triste. Sorrideva, ma era triste.

A volte mi viene ancora adesso in mente quello sguardo, e mi lascia un po’ sgomento. Ed è tutta colpa delle ultime sere delle vacanze al mare.

"Lo sai cosa succede adesso, Alberto?” mi chiese.

“No” risposi io, un po’ mentendo.

Cioè, adesso inteso come subito avrei voluto baciarla, ma adesso inteso come adesso che torniamo dalle vacanze, in realtà un po’ lo sapevo, lo intuivo dall’orizzonte dei suoi grandi occhi. Saremmo tornati a casa e pian piano non ci saremmo più rivisti.

Niente di particolare o di grave, è solo la vita: a diciannove anni è quasi impossibile legarsi veramente, si fanno scelte diverse, si prendono strade diverse, e ci si ritrova lontani. Più o meno per sempre.

“Sì invece che lo sai, Alberto, cosa succede adesso” e mi baciò.

Indovinai tutti e due gli adesso che avevo pensato.

 

E in effetti chissà dove sei, Elisabetta, adesso.

 

(da "Guida del mondo per gente strana")

 

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Alberto Fezzi