La finale di Champions League

Trascorsi i due anni di pratica, l’aspirante avvocato, per ottenere l’abilitazione, deve superare l’esame di stato. Eccoci dunque subito a uno degli snodi nevralgici di questa professione, un evento che, con il passare degli anni,

ogni avvocato cerca di rimuovere, come si fa con i lutti, con gli omicidi, con le stragi di stato, con le calamità.

Perché questo esame è traumatico, oltre che inutile.

Innanzitutto è strutturato in modo anacronistico. Andava bene forse negli anni Trenta quando è stato ideato e

quando a sostenerlo erano 100 candidati in tutta Italia che si presentavano all’esame con il cocchio trainato dai cavalli, ma adesso rappresenta un grottesco residuo di un’epoca che non esiste più.

Ovviamente, però, lo si mantiene in vita perché in Italia nel grottesco ci sguazziamo felici.

All’esame, solo nella mia regione, ogni anno si presentano circa 2.500 candidati, una fiumana di gente che arriva

alle soglie della professione spinta solo dall’incertezza (“ho fatto la pratica e quindi faccio l’esame, poi si vedrà”) e che comunque, superate queste soglie, troverà ancora la stessa incertezza, a causa del numero spropositato di

concorrenti.

All’esame si presentano certo quelli che effettivamente hanno sostenuto la pratica e vogliono esercitare la

professione una volta superata la prova, e questi, seppur abbastanza ingenui, sono almeno onesti e coerenti.

Quelli che invece fanno aumentare disgustosamente il numero dei candidati sono coloro che non hanno fatto un solo giorno di pratica, quelli cioè che hanno svolto la pratica in modo fittizio. Costoro per due anni hanno lavorato in qualche azienda o in qualche banca, guadagnando pure dei bei soldi, oppure hanno fatto gli assistenti universitari e vengono a prendersi il titolo di avvocato per conferire un po’ di prestigio alla loro futura carriera di professori. La sigla Prof. Avv. fa più scena del solo Prof. Il fatto negativo è che questi infiltrati, all’esame, partono al pari dei praticanti effettivi e dunque potrebbero rubare loro il titolo di avvocati, anche se è quasi sicuro che non eserciteranno mai la professione perché potrebbero non sapere neanche da che parte si entra in tribunale. Non solo. Quelli che hanno fatto gli assistenti universitari, e che dunque sono spesso rimasti chiusi nelle loro torri d’avorio a perdere la giovinezza sui libri di Diritto, si presentano all’esame magari anche più preparati dei praticanti veri. Dobbiamo a proposito tener presente che l’esame è prettamente teorico e, inspiegabilmente, non in grado di valutare se il candidato sappia effettivamente fare l’avvocato, e considerare peraltro che i praticanti hanno dovuto sbarcare il lunario per lo studio in cui hanno lavorato e forse hanno avuto meno tempo da dedicare ai libri.

Volete che in sei righe risolva il problema dell’effettivo svolgimento della pratica, dell’utilità e della ragionevolezza dell’esame, e quindi, in ultima istanza, anche dell’eccessivo numero di avvocati?

Ecco a voi la soluzione. Compiere controlli approfonditi su chi effettivamente svolge la pratica e su chi invece

la svolge in modo fittizio, radiando dall’albo dei praticanti i truffatori. Svolgere periodiche verifiche scritte e orali durante il biennio di pratica (diciamo ogni sei mesi), organizzate da ciascun Ordine territoriale di appartenenza(magari in collaborazione con le Università del territorio, come succede per i commercialisti), collegando il

superamento di tutte queste verifiche al conseguimento del titolo. Infine prevedere l’incompatibilità fra la professione di avvocato (e praticante avvocato) e qualsiasi altra professione.

Così facendo avremmo d’incanto risolto gran parte dei nostri problemi di accesso alla professione. Gli assistenti universitari tornerebbero a fare la loro noiosa vita anelando affannosamente di ottenere una cattedra a quarantacinque anni dopo aver adorato per tre lustri il loro professore, mentre gli impiegati di banca tornerebbero a contare i loro soldi e smetterebbero di sognare di poter far altro nella vita, lasciando così a noi avvocati fare in pace il nostro lavoro.

Ma non va così, e dunque ci si trova in 2.500 anime nello stesso posto a fare l’esame.

L’esame scritto si tiene una volta all’anno ‒ neanche fosse la finale di Champions League ‒ e si svolge in tre

giorni consecutivi a metà dicembre, durante i quali i candidati sostengono altrettante prove. Chi supera lo scritto sosterrà l’esame orale.

I risultati delle prove scritte si conoscono solitamente nel giugno dell’anno successivo, mentre l’esame orale si tiene tra settembre e inizio dicembre. Facendo le somme, dunque, complessivamente l’esame dura un anno. E

come direbbe Giovanni Floris: “alé”!

I candidati si presentano in massa il primo giorno dell’esame scritto ed è assai arduo contenerli tutti in un unico luogo.

Io ho sostenuto l’esame in un capannone della Fiera di Padova, dove si riuniscono gli aspiranti avvocati di tutto il Veneto. Immaginate un enorme capannone, svuotatelo, e riempitelo con una distesa biblica di banchi e persone. Un evento che sfiora le gesta epiche.

Ogni candidato ha con sé vari codici voluminosi e dunque ognuno si porta appresso una valigia di libri, solitamente un trolley. Si assiste quindi a questa fiumana di gente, questo “Esercito dei Trolley”, che si dirige verso il luogo deputato per l’esame.

Chi vede dall’esterno questo bizzarro esodo si chiede perplesso se nelle vicinanze ci sia una aeroporto, se sia in corso una migrazione di disperati, o se sia infine giunto il giorno del Giudizio Universale e se questo, inaspettatamente, si terrà presso la Fiera di Padova.

La distesa di persone si presenta all’entrata e qui viene suddivisa in lunghissime file a cui vengono controllati

i documenti e a cui vengono perquisite le valigie in cerca di qualche codice non consentito o qualche gravissimo bigliettino (come se in un bigliettino di quattro centimetri quadrati si potesse facilmente racchiudere un parere

giuridico sulla revoca del testamento). Il tutto appare come un misto tra il check-in di un aeroporto e l’ingresso di un campo di concentramento.

Una volta entrati, stremati, si prende posto nel proprio banchetto, al che comincia l’esame dalla durata di sette

ore, e così per tre giorni consecutivi. Al terzo giorno il candidato arriva dimagrito di sei chili, pallido come un sedano e con le occhiaie fin sotto gli stinchi.

Dunque, la selezione primaria all’esame per avvocato è innanzitutto fisica. La prossima frontiera che studieranno coloro che ciclicamente propongono riforme di accesso alla professione palesemente inadeguate, sarà il punzecchiamento in corso d’opera dei candidati con dei tizzoni ardenti nelle parti più sensibili del corpo, in modo da metterli ancora più in difficoltà.

Durante lo svolgimento dell’esame capita spesso che si erga a paladino delle più stupefacenti bizzarrie il presidente della commissione esaminatrice, che, investito del comando di 2.500 persone oltre che dei colleghi commissari, si sente più potente di Darth Vader in Guerre Stellari.

Posso riferirvi, a titolo di esempio, alcune stranezze presidenziali che sono state tramandate di avvocato in avvocato sino a diventare leggende, pur essendo, ahimè, del tutto vere.

È capitato che durante un esame il presidente si rivolgesse ai candidati dando del loro e dunque introducesse i suoi discorsi dicendo «lor signori prestino attenzione!», neanche ci si trovasse in un maniero inglese di epoca vittoriana.

Lo stesso presidente, per comunicare ai candidati il divieto di andare in bagno per la coda eccessiva,

solennemente esclamava: «È inibito l’accesso ai luoghi di decenza!», come in una favola dei fratelli Grimm.

Altra singolare espressione linguistica del medesimo presidente venne sciorinata quando una candidata, durante i tre giorni di esame, dovette allattare il proprio figlio che dunque venne fatto entrare nella sala ‒ ovviamente nel regolamento per l’esame di avvocato non è contemplata l’ipotesi di una candidata-madre. Invero stando alla disciplina dell’esame per avvocato direi che in generale i candidati non vengono considerati come veri e propri essere umani meritevoli di tutela almeno nei loro diritti fondamentali, quanto piuttosto come nuclei di pelle, ossa e diritto ‒. Comunque il presidente, per avvertire la candidata dell’ingresso del figlio, disse: «Candidata n. 348, è arrivato il parente per l’allattamento».

Il parente.

Non aggiungo altro.

Tutti i candidati, quando sentirono parlare di “parente”, si aspettarono che per l’allattamento entrasse un vecchio zio maniaco, amante dei seni floridi.

È capitato altresì che un altro anno il presidente della commissione fosse ossessionato dal punire inesorabilmente

chi cercasse di copiare.

E dunque egli portò con sé un binocolo (!) e una bicicletta (!!), così che durante lo svolgimento delle prove si potesse posizionare a un’estremità del padiglione, scrutare col binocolo possibili candidati copiatori, e alla fine inforcare il ferreo destriero per dirigersi più veloce di “Re Leone” Cipollini sul luogo del misfatto.

Non serve nemmeno soffermarsi sul paradosso, basta la fredda descrizione di una persona che si presenta a fare il commissario d’esame con una bicicletta e un binocolo, come in un safari. La realtà supera ogni più fervida fantasia.

Peraltro, per dare al cacciatore quel che è del cacciatore, va detto che è vero che tutti i 2.500 candidati, nessuno escluso, cercano in ogni modo di scambiarsi informazioni e suggerimenti, soprattutto nel bagno. Questo finisce con l’ospitare svariate persone che parlano di Diritto e sfogliano fotocopie rimpicciolite (che alla fine, in qualche modo, sono riuscite a entrare) e per sembrare un incrocio tra un’aula di tribunale e un luogo di decenza di campagna.

Infine, per racchiudere l’esame in una sola immagine, vi basti sapere che le buste dove vengono riposti i compiti

dei candidati vengono sigillate con la ceralacca. Io credevo che la ceralacca non esistesse più dai tempi in cui la posta veniva trasportata con le carriole, e invece nel ventunesimo secolo tocca ancora vedere questi commissari che sigillano le buste come fossero Bolle Papali dirette nel Lombardo-Veneto.

In ogni caso, preoccuparsi per l’esame scritto non serve più di tanto perché i compiti vengono corretti in stile

Liberty.

Considerate che ogni candidato sostiene tre prove scritte e dunque i commissari devono correggere in breve tempo circa 7.500 compiti che dissertano tutti, spesso in modo prolisso, delle stesse cose (e a ciò si aggiunga che magari il giorno della correzione il commissario può avere avuto problemi di digestione che, al momento del

giudizio, lo hanno reso molto suscettibile).

Se prendete un verbale di correzione dei compiti scritti e dividete il tempo della seduta per il numero degli elaborati, solitamente risulta che a ciascun compito vengono in media dedicati dai tre ai quattro minuti: 4 anni di università, 2 anni di pratica, 3 giorni di esame, 21 ore di redazione di elaborati, contro 3 minuti di correzione.

E il rispetto è perduto nel tempo, come una lacrima nella pioggia.

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Commenti: 1
  • #1

    Marco (venerdì, 12 dicembre 2014 17:37)

    A parte l'eccellente prosa, mi trovo in totale disaccordo con la soluzione proposta per arginare il problema di overbooking all'esame di Avvocato, ovverosia quella di restringere l'accesso dei candidati idionei a sostenere la prova. Tralasciando se sia meglio la veste da adorante "assistente" universitario o da vessato praticante, sottoposto al suo Dominus (già la sola parola evoca la peggiore forma di schiavitù) per poche centinaia di € al mese nella più rosea delle ipotesi (mi si scuserà se non trovo una parola abbastanza sdegnata per descrivere lo schifo che fa tale condizione lavorativa), pensare di risolvere il problema stringendo sempre di più il cerchio è anacronistico nonché tipicamente italiano. Basterebbe copiare da realtà a noi vicine, perfettamente funzionanti (Germania o Francia ad esempio) e risolvere il vero problema, che sta a livello universitari. Creare dopo un ciclo di 5 anni di studi un esercito di lavoratori sottopagati a totale disposizione dei loro Avvocati è cosa indegna per un Paese (non troppo) civile. Le invenzioni salvifiche lasciamole a chi sa gestire anche condizioni di normalità.

Alberto Fezzi