La pazienza dei forti

Formentera è un’isola delle Baleari, che si estende per soli 83 chilometri quadrati. 83 chilometri quadrati, dal porto al faro. Fine. Piccola, certo. Eppure è proprio un bel casino come isola. Uno pensa: in un’isola così piccola non succederà mai niente di rilevante. Oppure succederà poco, se non altro per ragioni di spazio: non è che in 83 chilometri quadrati si possa fare chissà che cosa. Beh, non è così.

 

La storia di Formentera è cominciata all’incirca negli anni Settanta, quando è diventata il rifugio degli hippy di mezzo mondo. I grandi rivoluzionari del ’68, dopo essersi accorti che le loro idee non avrebbero portato da nessuna parte, hanno preso due strade: una è stata quella di provare a inserirsi in modo maldestro nella società, facendo, che so, gli insegnanti, come se insegnando musica alle scuole medie si potesse comunque cambiare un po’ il mondo, ed invece sono restati dei semplici disadattati per la vita di tutti i giorni, a ricordare i bei tempi con la testa sempre voltata all’indietro, rimirando il periodo in cui si sono sentiti vivi; l’altra strada l’hanno presa quelli come me, quelli che non hanno cercato compromessi, hanno preso le poche cose che avevano e hanno portato le proprie idee in un posto dove nessuno potesse rompergli le palle. Formentera ad esempio.

 

Io sono nato a Bologna nel 1944, durante la Seconda Guerra Mondiale. Mio padre era partigiano ed è morto sugli Appennini, mia madre è morta un anno dopo la guerra di malattia e io praticamente i miei genitori non li ho neanche conosciuti. E se li ho conosciuti non me lo ricordo, e quindi è più o meno lo stesso.

La guerra, l’idea di guerra in generale, mi ha sempre disgustato fin da bambino, e quando alla fine degli anni Sessanta si sono diffuse certe idee, io ero semplicemente lì ad aspettarle. Quando però mi sono accorto che non ci avrebbero portato da nessuna parte, nel 1970 me ne sono andato via e sono venuto qua, su quest’isola.

Si era sparsa la voce che molti di noi, da tutta Europa, venivano a Formentera: hanno cominciato i crucchi, e poi via via tutti gli altri, perché qua si stava bene. Qua si poteva fare quello che si voleva, il tempo non andava avanti.

Sono venuto con uno zaino e una bicicletta, e basta. Ancora adesso ho solo uno zaino, lo stesso di allora, e una bicicletta, che invece non è più la stessa di allora perché quella mi si è definitivamente sfasciata a metà anni Ottanta e non so neanche come abbia fatto a resistere così tanto.

E in più adesso ho un cane, un vecchio bastardo (e lo dico un po’ in tutti i sensi, cioè bastardo come cane, ma anche un po’ nel senso derivato che usiamo per gli uomini, più in senso affettuoso, come nei film, tipo: “Ehi, è un sacco di tempo che non ti vedo, vecchio bastardo!”). E’ un cane che ho trovato ancora cucciolo vicino al porto, e mi sono sempre chiesto cosa ci facesse un cane randagio su un’isola. Cioè, è una cosa che mi è sempre risultata un po’ strana: l’isola è un luogo circoscritto, come dire, controllato, allora come possono esserci bestie randagie? Da dove arrivano? Lo so, è un pensiero piuttosto cretino, magari uno dell’isola aveva un cane (sì, ma dove l’aveva comprato? Se l’è fatto portare in nave da Barcellona? Oppure hanno portato un cane e una cagna sull’isola, li hanno fatti accoppiare come fossero gli Adamo ed Eva dei cani di Formentera, e hanno creato un canile?), e il suo

cane ha fatto dei cuccioli, ma lui non li voleva e li ha mandati fuori dalle balle (e comunque in una piccola isola non è come in una città, magari ti ritornano a casa e allora devi buttarli in mare e che si fottano).

Fatto sta che ho trovato questo cucciolo, e l’ho preso con me, un po’ perché mi piacciono molto i cani, un po’ perché quasi tutti gli hippy allora avevano un cane. Penso che la spiegazione di questa compagnia dipenda dal fatto che un hippy, aldilà dell’immagine stereotipata del sesso in libertà e delle canne di gruppo, molto spesso è solo, e allora deve pur avere qualcuno con cui parlare, per non sentirsi troppo addosso questa solitudine. E allora anch’io avevo il mio cane. L’ho trovato che era tutto magrolino e allora l’ho chiamato Secco. Col tempo è

rimasto più o meno uguale, magari ha messo un filino di carne in più, ma non più di tanto, anche perché nemmeno il suo padrone non è che si ingozzi di cappelletti in brodo o aragoste. Da allora più che altro è solo invecchiato, come il suo padrone. Ma come al suo padrone, gli è rimasta sempre una grande anima.

 

Adesso non voglio stare qua a raccontarvi per filo e per segno cosa ho fatto e come ho vissuto su quest’isola da quando ci sono arrivato. Ho dormito in tenda e poi in una vecchia roulotte, e lune e soli e camminate al tramonto e riflessioni vicino al mare, e tutto quello che vi può venire in mente pensando ad un uomo che abita su un’isola.

Mi sono mantenuto con piccoli lavori di artigianato e vendendo al faro della Mola vari monili creati da me; sono diventato amico di molti di quelli che hanno creato la comunità hippy su quest’isola, ed anche con quelli più giovani, quelli arrivati dopo di noi, anche se questi lo hanno fatto più per sentito dire che per chissà quali ideali. Più che dei rivoluzionari, mi sembra che questi siano solo dei grandi zozzoni. Come se qualcuno gli avesse detto che credere nella pace e nella libertà comporti, chissà perché, non lavarsi mai le ascelle. Non che io mi lavi spessissimo, ma insomma questi sanno di bestia.

Comunque, la vera sciagura capitata su quest’isola non sono stati loro, perché in fondo il fetore, anche il più molesto, con un po’ di sapone va via. Ciò che invece ha incrostato l’isola fin nelle viscere sono stati i turisti che hanno cominciato a venire da metà degli anni Novanta in poi.

Prima il turismo era innocuo ed era una costola del movimento hippy, cioè hanno cominciato ad arrivare dei turisti crucchi per fare una tranquilla vacanza all’insegna del contatto con la natura: in pratica venivano tedeschi di mezza età a cui piaceva sdraiarsi liberamente sulla sabbia con il batacchio al vento e titillarsi i maroni e le ciucce flosce con l’acqua fresca del mare. Ancora adesso questo tipo di turismo rimane, e in spiaggia si possono ancora vedere questi crucchi cinquantenni che sorseggiano il loro cappuccino rimirandosi il pistone.

Il tipo di turismo che ha infettato l’isola però è stato quello alla moda. Qualcuno, non so quando, non so dove, ma se lo trovo gli suono la fanfara a suon di calci nel culo, si è accorto della bellezza selvaggia di Formentera e ha cominciato a venirci per fare l’alternativo. Purtroppo però, come capita sempre quando qualcuno vuol fare l’alternativo senza esserlo realmente, la scelta di venire qua è diventata moda. E la moda, come sempre, ha attirato i deficienti. E, da italiano mi spiace ammetterlo, questi deficienti sono quasi tutti italiani.

Gli inglesi vanno tutti a Ibiza, trasformando Sant’Antonio in una specie di acciaieria di Sheffield, impasticcandosi e facendo casino per poi tornare più bianchi e alienati di quando sono partiti. Mentre gli italiani vengono di più qua a Formentera (tranne i militari e i quindicenni che continuano ad andare ad Ibiza).

Prima gruppi sparuti dal Nord Italia; poi tutti i milanesi in blocco, che seguono la moda a prescindere, anche se diventasse di moda mangiare emorroidi; poi i veneti, che vivono nella rincorsa ai milanesi; successivamente, a completare l’opera, l’orda dei romani; e infine, ciliegina sulla torta, il battaglione dei napoletani: quando l’aria si

riempie di li mortacci tua e uè cumpa’, la situazione è irreversibile.


Questi turisti si stipano come formiche sull’isola, in tre quattro cinque sei sette otto negli appartamenti. I traghetti a luglio e agosto li vomitano ogni giorno a migliaia. E loro brulicano per l’isola, girando sui motorini, le maglie scollate. i tatuaggi maori, le fasce nei capelli, gli infradito di tutti i tipi, l’alluce che ormai recita poesie a memoria; le ragazze con il pareo sul culo, grande o piccolo che sia, il culo intendo (e mostrate quelle chiappe almeno al mare, ragazze di terra devastate dai complessi!), agghindate da modelle o da finte straccione, comunque sempre costruite con il righello: tiri una fascia e cade l’orecchino, levi un infradito e il pareo mostra la cellulite, metti la

crema abbronzante e va via quella idratante.

Questi hanno portato sull’isola l’ostinata moda di fare l’aperitivo che seguono nelle loro città: verso le sette cominciano a ordinare beveroni alcolici di ogni tipo ai baracchini sulla spiaggia, e si stordiscono guardando tramontare il sole come si guarda un televisore. Proprio così: si ubriacano come zampogne seduti sulla spiaggia, aspettando che il sole scenda nel mare, e quando questo succede, applaudono. Questi dementi applaudono. Come se non avessero mai visto il sole tramontare. O forse perché non l’hanno in effetti mai visto tramontare, schiacciati dalle loro squallide vite nelle loro schifose città.

A questi, basta pochissimo per emozionarsi. O meglio: gli serve una montagna di alcol a stomaco vuoto. E quando

scorrono i titoli di coda sul tramonto, capita pure che comincino a ballare sulla spiaggia come forsennati al ritmo di una musica che sfregia l’aria. E sudano, ridono, urlano, pisciano, vomitano e si ingroppano. Poi, ubriachi fradici, riprendono i loro motorini e tornano a stiparsi negli appartamenti, a intasare le fogne della loro piscia e della loro merda. Ovviamente sempre che all’appartamento ci arrivino e invece non si schiantino sull’asfalto, ché allora poi il giorno tornano a fare l’aperitivo zoppicando (non sia mai che lo saltino), con macchie rosse di mercurocromo su tutto il corpo come la Pimpa di Altan (lo sapete che la Pimpa arriva anche qua? Oh, guardate che qua io leggo di tutto, sono un hippy, mica un ignorante).

Poi la notte girano ancora per i locali, esattamente come se fossero nelle loro città, e il giorno dopo tornano a fare l’aperitivo, esattamente come se fossero nelle loro città: e allora cosa diavolo ci vengono a fare su quest’isola se si comportano esattamente come se fossero nelle loro città?

 

Ma ci ho pensato io a dargli la lezione che si meritano. E’ stato un lavoro enorme, durato due anni. Simile a quello compiuto da quei carcerati che per scappare scavano un tunnel con le mani fin dopo il recinto della prigione. Ma ormai ci siamo, è solo questione di ore. Anzi, di minuti.

 

Sono le sei e venti di un pomeriggio di metà agosto e sto per partire dal faro, con il camioncino di Beppe Merda.

Beppe Merda è un tedesco di nome Josef, arrivato sull’isola poco dopo di me. Ha la mia stessa età e siamo diventati subito amici. Dopo qualche anno che si trovava qui, Josef si è messo a lavorare saltuariamente per una

ditta di pozzi neri dell’isola. Sono spuntate un paio di ditte del genere da quando è iniziato ad arrivare il turismo di massa e le fogne hanno cominciato ad intasarsi, perché, se per caso non lo sapete, lavorare per una ditta di pozzi neri vuol dire, in poche parole, neppure molto eleganti, sturare le fogne quando si intasano di merda.

Quando Josef ha cominciato a lavorare per i pozzi neri e a girare con la sua piccola autocisterna per stappare le fogne, io l’ho soprannominato Beppe Merda, e da allora quello è sempre rimasto il suo nome.

Quando ha mollato l’attività dei pozzi neri, perché si era giustamente stufato di vivere in mezzo alla cacca altrui (la propria invece, come si sa, appare sempre interessante al legittimo proprietario), la ditta, in segno di gratitudine per l’ardito ed esemplare lavoro svolto, gli ha lasciato tenere la piccola autocisterna, anche perché nel frattempo la tecnologia di quel settore, la tecnologia della merda, si era evoluta, e anche la piccola autocisterna col suo bel tubo aspiratutto guidata da Josef era diventata vetusta.

Da allora Beppe ha sempre scorrazzato in giro per l’isola col suo camioncino, diciamo una versione meno poetica e più viscerale, in tutti i sensi, dei furgoncini Volkswagen degli hippy.

E’ da tempo che con Beppe lavoro attorno al suo camioncino in vista di un giorno di gloria. E quel giorno è oggi.

 

Il sole si accinge a tramontare e io monto veloce sul mezzo. A fianco, sul sedile del passeggero, faccio montare Secco, il mio cane, perché è giusto che anche lui si goda lo spettacolo. D’altronde anche lui ha contribuito in modo determinante a quello che sto per fare.

Mentre mi dirigo ad una delle spiagge più famose dell’isola, la spiaggia del Big Sur, un baracchino sulla spiaggia che funge da ritrovo per gli imbecilli dell’aperitivo, ripenso ancora una volta, con sincera ammirazione per me stesso, a cosa mi sono tenacemente adoperato in questi ultimi due anni. E’ stato un compito che ha richiesto molta disciplina, ma su quest’isola il tempo per riflettere ed agire non mi è mai mancato.

Negli ultimi due anni ho riempito il camioncino di Beppe Merda. L’ho riempito con quello con cui veniva riempito quando ancora lo usava Beppe Merda. Merda, appunto. Mia e di Secco. Tutti i giorni, da due anni. Tutto quello che per due anni interi abbiamo prodotto io e il mio cane, che sarà anche secco ma quando ci si mette pare un orso, è finito nella cisterna del camioncino di Beppe.

Le prime volte che raccoglievo quel che faceva, Secco mi guardava con un’aria un po’ perplessa. Poi col tempo ha smesso di farlo, sembrava anzi molto ben disposto, quasi avesse compreso il significato dell’eroica impresa a cui stava partecipando. Lo so, sembra una follia, ma dovevo farlo. E sono sicuro che ne è valsa la pena.

 

Arrivo nel parcheggio davanti alla spiaggia e lo trovo, come da copione, intasato dai motorini, perché è l’ora di punta, l’ora in cui questi dementi si bevono il tramonto. Ma questa serasono contento che la spiaggia sia piena, così quello che sto per fare se lo ricorderanno in tanti.

Mi fermo con il camioncino a ridosso della siepe che separa il parcheggio dalla spiaggia. Estraggo la pompa che una volta veniva infilata nelle fogne e che adesso, grazie ad una piccola modifica tecnica apportata con l’aiuto di Beppe, verrà utilizzata ad uno scopo, credo, migliore. Infine tiro fuori una scala e salgo fino all’ultimo gradino, con la pompa in mano, in una posa statuaria, monumentale.

Da qui domino la spiaggia e vedo tutta questa marea di teste, fasce, petti, chiappe, parei, caraffe di Mojito, che guarda ebete verso il mare aspettando che il sole scompaia del tutto all’orizzonte, mentre dal baracchino comincia a salire il frastuono di una musica che non c’entra niente con quel paesaggio, e comunque non c’entra niente neanche con la musica (quella bella, intendo).

E’ quasi il momento, aspetto solo che il sole tramonti. Secco è ai piedi della scala e mi guarda scodinzolando, sembra fiero di me.

 

Ci siamo: l’ultimo spicchio di sole è scomparso dietro il mare brillante, e i deficienti cominciano ad applaudire e a festeggiare. E in effetti, sì: accendo l’interruttore e comincia la festa.

La mia pompa, puntata verso l’alto, inizia a sparare a raggiera tutto quello che ho messo da parte in due anni (e, vi ho già detto, non sono risparmi). E sui turisti che hanno impestato l’isola, cade una pioggia che finisce dappertutto: sui capelli, sugli occhi, sui corpi, sui tatuaggi, nei bicchieri, nelle caraffe, sui sorrisi sguaiati. Vedo distintamente una ragazza bionda con gli occhiali a specchio che, inebetita, grida: “Ma cos’è questa roba?” Te lo dico io, piccolina, senza giri di parole: è merda. Una pioggia di merda. Cacca, feci, escrementi, sterco, guano. Quello che hai portato su quest’isola, ti ritorna tutto indietro, piccola.

In effetti ci mette poco anche da sola ad accorgersi di quello che le sta piovendo addosso, e con uno scatto repentino si piega per vomitare. E così è un po’ per tutti: sulla spiaggia ora c'è il panico, il nemico non riesce nemmeno a capire da dove arrivi l’invasore, non riesce a tenere gli occhi aperti a causa degli schizzi, e si inginocchia per i conati. D’altronde va dato atto a questi ragazzi che una pioggia di feci non è da tutti i giorni (davanti a quello che sto vedendo mi vengono dei dubbi sull’efficacia delle bibliche invasioni di cavallette, mi

sembra che questo sia molto meglio).

Non so se qualcuno di voi ci abbia mai provato, è una cosa un po’ bizzarra, ne convengo, ma è incredibile quanta cacca si riesca a mettere via in due anni: tutta la gente che c’è in spiaggia è ormai inzaccherata da capo a piedi, e la pioggia continua a scendere incessante. Io rido e urlo a squarciagola, tanto la musica idiota che ancora suona copre la mia voce. Sono in trance agonistica, ho il furore da impresa, è la pioggia purificatrice dei Promessi Sposi,

Sposi, la pioggia che monda di D’Annunzio. La cosa mi sta dando alla testa, sono lo Zeus delle fogne. E’ meglio che adesso smetta.

 

Così, dopo aver dato fondo all’artiglieria, scendo dalla scala, metto via la pompa, e rimonto velocemente sul camioncino insieme a Secco. E in un attimo sono sulla strada del ritorno.

Le mie vittime sono contorte sulla spiaggia, e, finito l’attacco, cominciano a entrare in mare per pulirsi, ancora frastornate. Ma la musica è stata spenta, e sulla spiaggia ci sono meno risa e c’è stranamente, ma finalmente, un bel po' di silenzio.

Tornando al faro, accarezzo il valoroso Secco accanto a me, e guardo il mare. Questo mare che mi ha cresciuto, oggi sembra dirmi che abbiamo vinto una battaglia. La guerra non so se la vinceremo mai, ma non mi interessa, mi va bene così. Almeno per altri due anni.

 

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Alberto Fezzi