Chi vince il Pulitzer ha sempre ragione (una recensione non richiesta)

Nel gran mare di libri spazzatura che solitamente leggo (e che ogni tanto pure scrivo), mi capita talvolta di leggere

anche libri unanimemente considerati come impegnati (impegnati rispetto a cosa, poi, non l’ho mai ben capito),

perché mi è stato insegnato giustamente che, per saper scrivere, bisogna saper leggere. E anche per scrivere cazzate, come faccio io, bisogna saper leggere cose serie, come certi motivetti dell’estate, che uno pensa siano stati scritti in tre minuti e invece spesso ci sta dietro un gran lavoro, ché non è mica facile scrivere cazzate, fidatevi di me che sono un esperto.

Beh insomma, l’ultimo libro che ho letto, appartenente alla schiera delle letture serie, è stato “Il Cardellino” di Donna Tartt, Premio Pulitzer 2014 per la narrativa, pubblicato in Italia da Rizzoli. 892 pagine, per capirci.

Ebbene, dopo aver letto queste 892 pagine, senza alcuna competenza e senza minimamente esserne richiesto da alcuno, ho deciso di scrivere una breve recensione, spinto dalla domanda che pian piano affiorava dentro di me durante la lettura: cosa spinge una persona a scrivere un libro così imponente? Qual è il motivo per cui Donna (tra grandi della letteratura ci chiamiamo tutti per nome) ha deciso di scrivere queste 892 pagine?

Prima, uno stringato riassunto della trama: Theo Decker è un ragazzino newyorkese di tredici anni, la cui madre muore in un attentato terroristico compiuto all’interno di un non meglio precisato museo della Grande Mela (diciamo il Met). Anche Theo è presente al momento dell’esplosione dell’ordigno, ma, a differenza della madre, sopravvive all’esplosione, portando via con sé (o meglio: trafugando) uno dei dipinti presenti al museo: “Il Cardellino”, del pittore fiammingo Carel Fabritius. Da quel momento in poi, la vita di Theo cambia radicalmente: prima l’affidamento presso la famiglia di un amico, che poi muore; poi la ricomparsa del padre, alcolizzato, drogato e irresponsabile, che porta Theo a Las Vegas, e poi muore; poi il ritorno a New York, la giovinezza e l’età adulta, il lavoro come antiquario, grandi dosi di droga, l’amicizia pericolosa con Boris, l’amore voluto e non corrisposto di Pippa e l’amore non voluto e corrisposto di Kitsey (come sempre, come tutto), il casino

internazionale derivante dal trafugamento del quadro, filo rosso di tutto il libro, il crocevia conclusivo degli eventi

ad Amsterdam, titoli di coda, fine. Ho tagliato un bel po’ di cose, ma insomma erano 892 pagine, ho fatto del mio meglio.

Da un punto di vista stilistico, è un libro impeccabile: è scritto perfettamente, in modo preciso, sicuro, elegante, senza mai risultare pesante. Certo, mai nemmeno un particolare colpo di brio o d’ironia, ma d’altronde intorno a questo Theo muoiono tutti: la madre, il padre e il migliore amico; la donna che ama non lo ricambia manco se

s’ammazza pure lui; non potevamo dunque aspettarci sganasciate e mortaretti.

Dal punto di vista del contenuto, la vicenda, che a seconda dei momenti ha i toni del thriller, del dramma, del romanzo piscologico e di quello di formazione, non è in realtà mai nessuno di questi, non si spinge mai a fondo in un genere piuttosto che in un altro, e resta invece sempre in qualche modo sospesa, come se fossimo immersi più nella testa del protagonista, che nei fatti da lui vissuti e narrati in prima persona. Il risultato, è, in sostanza, un’elucubrazione di 892 pagine, in alcune parti avvincente e coinvolgente, ma mai veramente avvincente e coinvolgente.

Perché dunque, e torniamo alla domanda iniziale, l’autrice si è sentita in dovere di scofanarci un’elucubrazione di 892 pagine? Io amo le elucubrazioni, ma servivano 892 pagine per comunicare quello che l’autrice voleva comunicare? O, in modo ancor più netto: l’autrice voleva comunicare qualcosa? Voleva che il lettore recepisse un messaggio e in esso potesse in qualche modo riconoscersi o trarne anche solo un qualche spunto o una qualche ispirazione? O invece questi grossi tomi, che vengono etichettati come facenti parte della categoria del “Grande

Romanzo Americano”, sono lunghissime storie, certo ben scritte, che però, a ben vedere, non ci dicono assolutamente nulla e non servono assolutamente a nulla, e allora tanto vale leggere 600 pagine di Stephen King che scrive altrettanto bene, ma almeno mi diverto pure?

Ecco, secondo la mia opinione nient’affatto richiesta, nel caso de “Il Cardellino”, ci sono 891 pagine che, ai fini di comunicare qualcosa al lettore di veramente interessante, non dicono nulla, e poi c’è una pagina che vale il libro, questa: “Perché sono fatto così? Perché tengo alle cose sbagliate, e non mi curo di quelle giuste? O, per metterla in un altro modo: come è possibile che, pur rendendomi conto che tutto quel che amo o che m’interessa è

un’illusione, io continui a sentire che tutto ciò per cui vale la pena vivere risiede proprio in quell’illusione?

Un grande dolore, che comincio a comprendere solo adesso: il cuore non si sceglie. Non possiamo obbligarci a desiderare ciò che è bene per noi o per gli altri. Non siamo noi a determinare il tipo di persone che siamo.

Perché – non ci martellano forse fin dall’infanzia con l’idea opposta, un luogo comune profondamene radicato nella nostra cultura, da William Blake a Lady Gaga, da Rousseau a Rumi della Tosca a Mister Rogers, un messaggio curiosamente uniforme, trasversale: se sei in dubbio, cosa fai? Come fai a sapere cosa è giusto per te? Ogni psicologo, ogni consulente del lavoro, ogni principessa Disney conosce la risposta: “Sii te stesso”. “Segui il tuo cuore”.

Ma ecco ciò che vorrei davvero che qualcuno mi spiegasse. Cosa succede se ti ritrovi con un cuore inaffidabile? Se questo cuore, per ragioni imperscrutabili, ti porta ostinatamente, avvolto in una nube di indicibile fulgore, lontano da tutto ciò che è sano, dal conforto dei piaceri domestici, dal senso civico e dai legami sociali e da tutte quelle che vengono comunemente considerate virtù per trascinarti invece verso uno stupendo falò di rovina, immolazione e disastro? Ha forse ragione Kitsey? Se il tuo io più profondo ti conduce cantando dritto verso il fuoco, devi voltargli le spalle? Tapparti le orecchie con la cera? Ignorare il perverso splendore che il cuore ti grida contro? Metterti sulla

strada che ti porterà alla normalità, orari ragionevoli e regolari controlli medici, relazioni stabili e promozioni sicure, il “New York Times” e il brunch della domenica, il tutto con la promessa di diventare una persona migliore? O - come Boris - è meglio tuffarsi di testa e con una risata nel sacro fuoco che chiama il tuo nome?”

Certo, ci si poteva scrivere anche solo un post su Facebook, o una pagina di quadernone ad anelli, e non buttare giù l’Amazzonia con un libro di 892 pagine, ma va beh, chi vince il Pulitzer ha sempre ragione.

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Alberto Fezzi