Non sono mai stato un amante del R.I.P. scritto su Facebook, del lutto più ostentato che condiviso, vagamente morboso. Ma a volte, quando a lasciarci è un amico, poter scrivere due parole è una cura lieve.
Ci sono eroi dello sport o icone della musica che, seppur distanti fisicamente, hanno accompagnato da vicino la nostra crescita, con le loro imprese o le loro canzoni. Amici da cui ci separa lo schermo di una televisione o l’involucro di una cassa, ma pur sempre amici, persone di cui si parla a tavola, al bar, per strada.
Quando questa distanza si riduce ulteriormente, e l’eroe risulta avvicinabile, egli diviene a tutti gli effetti uno di noi. Così è stato a Verona con Henry Williams, che all’inizio degli anni ’90 è arrivato alla Scaligera Basket e, almeno nel ricordo, non se n’è più andato.
Arrivato per caso, per sostituire temporaneamente l’infortunato Corey Crowder (neanche uno scarso, tra l’altro), ha spaccato il basket veronese, in un’epoca pre e post Henry Williams.
Ero presente al debutto, durante il quale, dopo un primo tempo da 2 punti, fece seguire un secondo tempo da 23, infilandola da ogni parte del campo, soprattutto da molto distante, costruendosi il tiro da tre punti semplicemente saltando più del suo marcatore.
Ci mise poco tempo, quel piccolo meraviglioso giocatore arrivato a Verona al tempo di Jordan, a far innamorare una città e a far pensare, per l’esplosività dell’elevazione, un poco a Michael (Hi Fly e Air, siamo dalle stesse parti).
Al tempo, già grafomane, scrivevo sul giornalino della mia parrocchia, e, abitando nella stessa via del capitano della Scaligera Giampiero Savio, quello che un paio d’anni prima aveva alzato la Coppa Italia nella finale vinta contro Milano, gli inflissi un piccolo stalking chiedendogli un’intervista, una volta che lo avevo beccato, indifeso, con le borse della spesa in mano.
Savio era un giocatore quadrato, mi piaceva molto, ottimo difensore e gran tiratore, un po’ John Paxson rispetto a Jordan, e certamente un po’ Savio rispetto a Williams. Durante l’intervista si creò un bel clima, lui era molto gentile, e quando arrivò persino a porgermi in braccio il suo bambino che io afferrai come si può afferrare un gatto bagnato, provai a chiedergli se poteva fare da intermediario anche per un'intervista a Williams.
Detto fatto, qualche tempo dopo mi presentai al palazzetto dopo un allenamento munito di un vecchio registratore Philips grande come una scatola da scarpe, che fece aprire Williams in un sorriso non appena lo vide. Un sorriso enorme, inconfondibile.
Di quell’intervista ricordo poco, anche perché lui parlava solo in inglese e io l’inglese l’avevo studiato alle medie e i primi due anni del ginnasio (una volta si pensava che bastasse la conoscenza del latino e del greco antico per farci sentire cittadini europei), però ricordo due cose: che la sua attrice preferita era Halle Berry, e alla domanda su chi lo avesse più influenzato o ispirato nella vita, rispose “Dio”.
Di lui ricordo anche che, nella stagione successiva a quella del debutto, quando ormai Verona lo amava in modo incondizionato, durante una partita si fece male a un piede, restando a terra molto dolorante, per poi essere portato fuori a braccia. In quel momento, la gente sugli spalti piangeva. Non lo dico in modo iperbolico, piangeva veramente, con le lacrime agli occhi. Pure io, credo. Io che nella mia brillante (?) carriera cestistica, da Williams in poi, ho sempre indossato il 14, il suo numero, e, se quello non era disponibile, il 7, cioè la metà di lui (anche se, considerati i rispettivi valori, per me sarebbe andato meglio il 3,5). Quel giorno pensavamo di averlo perso, perché l’infortunio sembrava grave. Dopo un po’ lui però fece ritorno in campo zoppicando, e anche se per
quella partita non rientrò più e per qualche partita successiva restò fuori (ma l’infortunio era molto meno grave del previsto), ci fu un boato, bastò per farci capire che il nostro amico non se n’era andato, era ancora lì a divertirsi insieme a noi.
E come molte amicizie, anche quella ebbe i suoi alti e bassi: lui poi se ne andò, addirittura a Treviso, rivale storica di Verona per questioni geografiche, poi tornò, come fanno gli amici, e se ne andò di nuovo. Ma, come in una vera amicizia, il legame non venne mai meno. Il legame non viene mai meno.
Gli anni di Williams hanno rappresentato uno dei vertici del basket veronese, e forse, nonostante dopo di lui si sia vinto anche di più, il vertice più alto quanto a coinvolgimento emotivo e quanto a spettacolo racchiuso in un solo giocatore.
Ma gli anni di Williams, come tutti gli anni in cui ognuno di noi ha seguito un campione, un’icona, sono stati anche tra i nostri anni migliori, che siamo cresciuti insieme a lui. Il nostro amico, Henry Williams.